Colloquio con Giovanni Azzone, nuovo rettore del Politecnico di Milano
«L'ingegnere, l'architetto così come il designer sono, secondo me, persone che vogliono cambiare il mondo. Formarli significa aiutarli a sviluppare un senso etico». Giovanni Azzone, 48 anni, ingegnere gestionale, fresco di nomina a rettore del Politecnico di Milano ci pensa bene prima di pronunciare questa parola. «Etica significa comprendere che c'è una responsabilità nella professione che si andrà a svolgere. E questa riflessione se parte qui, dentro le aule dell'università, ha più chance di aver successo». Più che una preoccupazione quello di Azzone pare un progetto anzi, un disegno dai tratti ben precisi. Allievo di Umberto Bertelè considerato una creature del Mip la School of Management del Politecnico di Milano, il professore di sistemi di controllo sembra aver ben chiare le caratteristiche che dovrà avere chi si laureerà sotto il suo rettorato. «Le competenze tecniche devono essere affiancate da una capacità nuova di saper lavorare a stretto contatto con figure professionali diverse. I nostri studenti dovranno sempre di più impossessarsi di linguaggi diversi, imparare a lavorare su tavoli multidisciplinari e misurarsi con culture differenti». Quando a gennaio inizierà il suo mandato, tra le sue prime decisioni c'è quella di proseguire l'esperienza già intraprese dall'Alta scuola politecnica estendendo attività progettuali e seminari di questo tipo anche in altri aree dell'ateneo. «Gli studenti devono imparare non solo la teoria ma anche a lavorare insieme a progetti specifici. Questo è un aspetto importantissimo. Ho scelto di non delegare nessuno perché voglio occuparmi di persona della formazione», tiene a sottolineare Azzone.
Un esempio emblematico in questo senso è il design: «Non vogliamo confonderci con le scuole che ci sono in Italia o, peggio ancora, scimmiottare gli istituti di belle arti. Vogliamo al contrario interpretare il design con le competenze che abbiamo all'interno del Politecnico. Penso all'information technology o anche ai nuovi materiali. Mettere a fattor comunque questi asset può contribuire a sviluppare un nostro modo di intendere il design. Del resto – sorride – formiamo anche qualche ingegnere e architetto». Qualche per modo di dire. Nove facoltà, 37mila studenti, poco meno di 1.400 professori. Il Politecnico di Milano è una macchina che "produce" 4mila laureati all'anno (1.600 quelli del trienno che decidono di non proseguire) per un fatturato che si aggirerebbe intorno ai 400 milioni di euro. Per certi versi l'esperienza dell'ateneo milanese non è paragonabile a quelle del resto delle università italiane. Sotto la guida di Giulio Ballio in sette anni, l'autofinanziamento di ricerca è raddoppiato, arrivando a oltre 70 milioni di euro l'anno, di cui metà da bandi competitivi e metà dal trasferimento della ricerca. Se si considera anche l'apporto della Fondazione del Politecnico di Milano, dei consorzi e degli spin off si superano i 110 milioni annui.
«Centrale è naturalmente il rapporto con l'impresa. Ma mi aspetto una miglior qualificazione della nostra attività. Occorre ad esempio superare l'impostazione che vede l'ateneo e le aziende lavorare a progetti singoli e di breve periodo. L'università non deve limitarsi a risolvere dei problemi alle imprese ma identificare temi di ricerca pluriennali in modo da formare come è stato fatto ad esempio nel settore dell'energia squadre di ricercatori e competenze. In questo senso dobbiamo sfidare le aziende proponendo loro delle prospettive di lungo periodo. Il rischio è di ripartire sempre da capo. Un'università pubblica deve invece identificare i temi della ricerca e stimolare l'impresa ad accettare la sfida. Diverso, tuttavia, è il discorso per le piccole aziende. Chiaramente hanno esigenze differenti dalle medie. Nella mia esperienza i migliori risultati in questo frangente si sono ottenuti quando il contatto con le pmi è stato mediato dalle associazioni di categoria o dalle camere di commercio. Le confesso, a questo proposito, che odio il termine trasferimento tecnologico, perché è una espressione che fa pensare a cassetti chiusi. Come se gli atenei conservassero gelosamente il proprio sapere. Semmai è il contrario».
Ma la sfida più urgente è anche quella di "studiare" gli studenti. Aprire l'università a una generazione di nativi digitali educata a usare tecnologie e logiche di rete. «Quando trent'anni fa sono entrato al Politecnico di Milano le prima cose che ho imparato sono metodo e rigore. Due caratteristiche distintive del l'ingegnere. Quello che hanno le nuove generazioni è una certa fretta nell'affontare i problemi. Cercano subito la soluzione, non impostano prima il problema non lo concettualizzano. Forse perché le tecnologie digitali, i motori di ricerca e internet inducono ad agire in questo senso. Non so. Ecco, in questo sono e resto un ingegnere di vecchia scuola. Pur amando le tecnologie».
pubblicato su nova del 8-7-2010