Contare i nuovi imprenditori significa anche misurare la vocazione di un Paese a spostare più avanti la frontiera tecnologica. E in Italia le nuove attività che sono nate nel 2009 si distinguono per adozione di nuove tecnologie. È questo forse il dato più sorprendente del rapporto Global Entrepreneurship Monitor (Gem) che verrà presentato domani all’Università Bocconi nell’ambito del salone MiFaccioImpresa. «Il trend si è un po’ invertito – spiega Giovanni Valentini, professore di strategia del centro di ricerca EntER (Bocconi) –. Chi da vita a una azienda si sta spostando verso attività a maggior valore aggiunto, uno su quattro dichiara di avere un prodotto basato su una nuova tecnologia e il 18% di avere un servizio innovativo rispetto al mercato». Il dato sorprende anche perché l’Italia sviluppa poca tecnologia ma evidentemente chi si affaccia sul mercato gioca la carta dell’adozione di hi-tech. Tuttavia, il quadro rimane problematico. La ricerca condotta su 54 paesi ci vede indietreggiare. Il tasso di imprenditorialità è tra i più bassi nelle economie più avanzate rilevate: 3,7% delle popolazione coinvolta in nuove imprese contro una media del 6,7. Meglio di noi ma di poco Germania, Francia e Spagna mentre gli Stati Uniti si assestano su un 8%, in calo rispetto alle rilevazioni precedenti. Terra più fertile di iniziative sono gli Emirati Arabi (13,3%); spicca naturalmente la Cina (18%) curiosamente infilata tra le economie emergenti e anche le performance di due sudamericane (Perù e Colombia). «Ovviamente c’entra la crisi che ha colpito le economie più mature – osserva Valentini –, però non è l’unica responsabile. Se noi guardiamo gli ultimi sette anni l’Italia quanto a tasso di imprenditorialità è sempre stata sotto la media. Quindi si conferma un trend che non nasce oggi. Tuttavia ci sono dati positivi: se è vero che nascono meno imprese, quelle che sono nate vivono più a lungo e quindi dimostrano di avere un modello di business più solido, di saper cogliere le opportunità del mercato».
Quanto all’identikit che ogni anno viene stilato il nuovo imprenditore italiano si conferma in media giovane, laureato e maschio. Quest’ultimo attributo è da un punto di vista statistico un limite. «Manca all’appello l’imprenditoria femminile – lamenta il docente della Bocconi –. E questa tendenza va peggiorando. In Spagna ogni 1,6 uomini che aprono una nuova attività c’è una donna, in Italia il rapporto è tre a uno. Probabilmente se ci fosse più spazio per le donne raggiungeremmo tassi di imprenditorialità in linea con gli altri paesi».