Da 15 anni si ripete la stessa storia, cambiano solo i numeri anzi «peggiorano». L’information overload in origine una suggestione, poi il segno di un cambiamento, un paradigma nuovo, un problema, un allarme è infine oggi un fatto. Non una disfunzione, un baco di sistema e neppure l’unico attributo di internet. Ma una complessità misurabile. Trentacinque ore di video al minuto (Youtube), due miliardi di foto (Flickr), 25 milioni di tweet, 30 miliardi tra link, post e contenuti digitali scambiati ogni mese su Facebook. Un traffico inimmaginabile di dati, suoni e immagini. Bellissimo e spaventoso al tempo stesso. La creatività caotica che produce innovazione contrapposta alla richiesta di ordine ed efficienza dei padroni dei server e delle tlc. Visioni ideologiche del web, facili scorciatoie per distrarre ancora una volta da un dato di fatto: quasi due miliardi di utenti internet producono e consumano contenuti. La prima attività rappresenta indiscutibilmente un successo culturale. La seconda nasconde criticità e pone sfide di adattamento al mezzo che non abbiamo ancora risolto. E neppure compreso.
Eppure, «riusciamo» a calcolare le conseguenze: il flusso di informazioni veicolato su internet costerebbe all’economia americana in termini di produttività perduta quasi 900 miliardi di dollari all’anno. Louis Gray sul suo blog ha calcolato che dedicando un massimo di tre secondi per ogni feed del suo lettore Rss riesce a cavarsela in 45 minuti al giorno per consultare tutti gli aggiornamenti. Per spiegare il suo metodo di consultazione automatica dei feed impiega sul suo blog duemila caratteri ma lo stesso non risulta convincente. «L’economia dell’informazione – sostiene il Nobel dell’economia Herbert Simon – crea povertà di attenzione». Numerosi studi di psicologia hanno preso sul serio le conseguenze dell’information overload fornendo evidenze sulla nostra scarsissima capacità di concentrazione quando consultiamo il web. I neuroscienziati però hanno bisogno di tempo e avvertono che i tempi dell’adattamento ai media possono essere particolarmente lunghi. Ma prima di rassegnarci a scoprire tra cinque anni l’impatto di una sovraesposizione prolungata ai social network sui nostri modelli cognitivi è bene ritornare con lo sguardo a internet. E alle risposte che i tecnologi stanno studiando. Dal boom delle reti sociali la necessità di mettere a punto una serie di filtri ha prodotto start up, tecnologie e idee. Per aiutare gli utenti a selezionare ciò che è importante sapere da ciò che è rumore di fondo la rete ha individuato nel contesto il punto di partenza affermando l’esigenza di ruoli specializzati per filtrare i flussi di informazione e connettere reti diverse tra loro. Finora si possono identificare cinque paradigmi tecnologici che provano a fornire risposte. La più semplice è quella offerta dagli aggregatori di notizie. Verticali o generalisti, umani o automatici forniscono una selezione delle notizie che circolano in rete. Più complesso è l’approccio che vede algoritmi incrociare i comportamenti di navigazione dell’utente con i flussi di informazione della rete. Genieo così come Sky Grid si configurano come filtri comportamentisti, studiati per imparare dall’utente. Tra questi due approcci si articolano soluzioni ibride particolarmente interessanti. Dai content curator, sistemi che organizzano l’informazione stimolando la collaborazione tra individui ai tool che si concentrano sulle reti sociali filtrando il flusso di informazioni e restituendo grafici e andamenti.
Più connessi con la capacità di concentrazione sono invece software che svolgono la funzione di distinguere il tempo del browsing da quello della lettura. Evoluzioni di bookmark come Delicious o Icyte si propongono come depository di contenuti da fruire in un secondo momento. Alla stessa famiglia appartengono quei sistemi che lavorano sul design dell’informazione e quindi sull’interfaccia. Lungo questa frontiera si incontrano gioielli come Flipboard e iniziative come quella di David McCandless, giornalista e designer, che trasforma i dati in informazione «bellissime». Davvero più bello sarebbe però il filtro che ancora non c’è. Quello che riesce a risalire alla fonte delle informazioni, a chi per primo ha immesso nella rete il dato. Un filtro per la trasparenza che quantomeno semplificherebbe davvero l’information overload.
pubblicato su nova del 20 gennaio