Nonostante ritardi, incomprensioni e bug, Minecraft resta uno degli irrisolti misteri videoludici. Piace a tutti, tutti lo attendono ma pochi ci hanno davvero giocato. Potremmo definirlo un survival sandbox, un game per creare mondi che vagamente ricorda Second Life. Di giorno raccogli i materiali e costruisci quel che ti pare. Di notte arrivano i mostri e tocca nascondersi. Tutto qui. Parliamo di quei rarissimi titoli che raccolgono grandissime attese e scatenano violente antipatie senza essere ancora usciti dalla fase beta. Parliamo di un gioco che gira su quasi tutte le piattaforme software, da Android al pc, tranne che su console, che vanta un milione e mezzo di utenti, che è stato premiato alla Game Developers Conference e omaggiato dal più visionario dei game designer dell’industria videoludica, tale Peter Molyneux, capo di Lionhead e papà di Fable. Un gioco per creare giochi, una scatola per gli attrezzi, dalla grafica un po’ vintage a cubi, divertente ma solo a patto di avere fantasia e creatività.
Forse è tutto qui il mistero di Minecraft e dei giochi "sandbox". Parlano a un giocatore che non si accontenta di sparare, esplorare e saltare su piattaforme. O più semplicemente che vuole sì sparare, esplorare e saltare su piattaforme ma a modo suo. Decidendo le regole del gioco, le sfide e le missioni. E magari pure il punteggio. Negli anni Novanta questa esigenza era interpretata da specifiche sezioni del videogame lasciata al giocatore che poteva scegliere fra una serie di missioni, scenari e sfide, personalizzando la sua esperienza di gioco. Successivamente fece capolino una generazione di titoli che non si limitavano al cicaleggio creativo ma puntavano direttamente a sedurre il game designer che è in noi. Il più creativo e il più coraggioso è stato Little Big Planet di Media Molecule (Ps3). Nel secondo capitolo il pupazzetto di stoffa amplia le potenzialità dell’editor andando ad abbracciare oltre il platform altri generi dallo sparatutto alla guida. Prima di lui aveva fatto meglio in termini di generatore di creatività solo Spore di Will Wright. Altri titoli si sono avventurati con più convinzione nel rendere trasparente la programmazione dietro al videogame ma hanno sortito scarsi effetti in termini di vendite. Mentre chi ha puntato su script e animazione, e quindi su un approccio artistico, ha avuto più fortuna. Anche perché un conto è disegnare e muovere un personaggio, un’altro è decidere l’insieme di regole e sfide che dovrà affrontare. Un piccolo passo in avanti per avvicinare questi due ambiti di progettazione del gioco è stato compiuto sul fronte delle periferiche di gioco. Un buon esempio è rappresentato da uDraw Game Tablet per Wii, un accessorio creato da Thq che serve sostanzialmente per disegnare. Il target sono i bambini ma in prospettiva si può immaginare un uso più adulto. Un paio di anni fa, la stessa Thq aveva scommesso su Drawn to Life, una avventura platform per Nintendo Ds che chiedeva al giocatore di disegnare con il pennino l’eroe e svariati altri oggetti indispensabili nel corso del game.
Un’altro passettino in questa direzione è rappresentato dalle sperimentazioni che stanno investendo i sistemi di controllo di Xbox 360 (Kinect) e Ps3 (Move). Titoli come Yoostar 2 di Namco Bandai giocano con la possibilità delle telecamere di portare dentro il gioco l’immagine o il filmato del giocatore. Interpretare questi esempi come prodromici a un sandbox perfetto e già all’orizzonte è prematuro e forse sbagliato. Certamente però stanno stimolando il game designer che è in noi. (l.tre)
su nova24 del 24