Nel primo libro delle Storie, Erodoto racconta di una carestia durata ben 18 anni che si sarebbe abbattuta su tutta la Lidia. Per resistere agli stimoli della fame la popolazione aveva escogitata una strategia di distrazione che oggi chiamiamo gioco. «Per i Lidi fare del gioco insieme un’attività quasi a tempo pieno sarebbe stato un comportamento altamente adattivo a condizioni difficili. In sostanza i giochi rendevano la vita sopportabile». A loro, agli abitanti della Lidia dobbiamo l’invenzione della palla, dei dati e degli astragali. E a Jane McGonigal l’intuizione che anima il suo libro «Reality is borken: Why Games Make Us Better and How They Change the World» (in Italia per Apogeo «La realtà in gioco: perché i giochi ci rendono migliori e come possono cambiare il mondo»). «Oggi non siamo molto diversi dagli antichi Lidi – scrive la ricercatrice dell’Institute for the future di Palo Alto (Usa) che il 3 maggio sarà a Milano a Meet The Media Guru –. Molti giocatori hanno già trovato come utilizzare la potenza immersiva del gioco per distrarsi dalla loro fame: il bisogno di un lavoro più soddisfacente, di un senso di comunità più robusto, di una vita più coinvolgente e significativa. Il pianeta investe collettivamente più di tre miliardi di ore alla settimana nel gioco. Quello a cui assistiamo è una esodo di massa dalla realtà». Una fuga dal mondo che coinvolge una intera generazione, coloro che negli anni ottanta hanno conosciuto da vicino mondi immersivi, videogame e ambienti ludici in 3D. Tuttavia, quella osservata da Jane McGonigal non pare molto diversa dall’"attrazione fatale" che la televisione ha esercitato in occidente negli anni Cinquanta-Sessanta. «Non credo proprio – risponde –. L’engagement che viviamo con i giochi è abbastanza diverso da quello con tv, reality o programmi sportivi. Quando giochiamo a un videogame noi in modo attivo affrontiamo una sfida. Al contrario davanti al piccolo schermo il nostro intrattenimento è passivo. Il "lavoro" che offrono i giochi procura benefici. Più precisamente ottimismo, motivazione, iniziativa, curiosità e desiderio di auto-miglioramento».
Il percorso della McGonigal inizia nel 2001 quando comincia a progettare videogame. Per dieci anni all’università della California a Berkely ha imparato a studiare i giochi per computer attingendo dai psicologia, scienza cognitiva, sociologia, economia e scienza politica. Ma il suo interesse principale è e resta quello di capire come i videogame possono modificare il modo in cui pensiamo e agiamo nella vita reale. Scrive in «Reality is broken…»: «I giochi ci mostrano esattamente che cosa vogliamo dalla vita: un lavoro soddisfacente, migliori speranze di successo, una connettività sociale più forte e la possibilità di far parte di qualche cosa di più grande di noi. Con i giochi che ci aiutano a generare queste quattro gratificazioni ogni giorno abbiamo un potenziale illimitato di innalzamento della qualità della vita. I giochi dunque ci insegnano a vedere cosa ci rende realmente felici. Ma – si domanda la ricercatrice statunitense – possiamo applicare questa conoscenza al mondo reale?».
La "missione" della McGonigal – la "quest" per usare un linguaggio da gamers – è appunto quella di interrompere la fuga dalla realtà descritta nel libro. In che modo? Rendendo la realtà più simile a un videogioco, usando le meccaniche dei videogame, quanto abbiamo imparato sui giochi in termini di progettazione. Questa sfida l’ha consacrata come una delle esponenti di spicco della "gamification" (si legga Nova24 del 24 marzo) ma ha anche attirato le critiche di chi vede i videgiochi non "solo" forieri di felicità ma anche di stress, dipendenza e frustrazione. «La preoccupazione c’è, assolutamente – commenta –. Studi dimostrano benefici sotto il profilo mentale ed emotivo quando giochiamo non più di tre al massimo 21 ore alla settimana). Quando si passa più tempo i vantaggi psicologici spariscono interamente e si possono avere impatti negativi su salute, relazioni e vita lavorativa». Atualmente Jane McGonigal sta provando a dare corso a quanto ha scritto. Ha avviato a San Francisco una startup chiamata Social Chocolate e sta progettando giochi che abbiano un impatto positivo nella vita reale, in grado di rafforzare emozioni positive e connessione sociale. Il primo si chiama SuperBetter. E promette bene.