Copertina di nova 24 del 26-6
Nel deserto del Mojave a un’ora di macchina da Las Vegas c’è Mountain Pass, la più antica miniera di cerio, neodimio e altri metalli degli Stati Uniti. Un squarcio profondo 500 metri che negli anni Settanta rappresentava il più grande deposito del mondo di terre rare. Ci rinunciarono nel 2002, prevalentemente per ragioni di mercato, la concorrenza delle miniere cinesi li costrinse a chiudere. In quegli anni nessuno poteva prevedere che da quei 17 elementi posti sotto la Tavola periodica sarebbero dipeso il futuro dell’elettronica di consumo e delle energie alternative. Così come non era prevedibile che in meno di quarant’anni le rinnovabili sarebbero schizzate in cima all’agenda internazionale. Tantomeno che la Cina si sarebbe trovata seduta su una nuova montagna d’oro.
Su un centinaio di milioni di tonnellate di riserve accertate nel mondo, Pechino ne controlla poco più di un terzo ma ne estrae il 95 per cento. Un quasi monopolio che tiene in allarme tutto il mondo. Il campanello è suonato più forte quando la Cina ma messo un tetto alle esportazioni. E più recentemente (alcuni giorni fa) quando ha deciso di ridurre la produzione di metalli rari nei prossimi due anni. E dire che a dispetto del nome i cosiddetti lantanoidi, più lo scandio e l’ittrio, alias gli Rare earth elements, sono abbondanti sotto la crosta terreste. «Sono elementi complessi, atomi pesanti – spiega Roberto Cingolani, direttore scientifico dell’Istituto Italiano di Tecnologia, nanotecnologo e tra i maggiori scienziati italiani –. La via d’uscita più immediata è quella di impegnarsi a estrarre questi elementi: il problema non è tanto la disponibilità ma l’estrazione e la lavorazione».
La risposta dei governi è costruire nuove miniere. Le spese per l’esplorazione di nuovi giacimenti nel frattempo sono più che quadruplicate. Sicché a Mountain Pass ci hanno ripensato e l’anno scorso sono tornate le trivelle. Scaveranno fino a mille metri sotto il livello del mare con la speranza di trasformare la miniera nella fonte primaria di questi elementi per i prossimi dieci anni. Ma è ai laboratori che si guarda con maggiore insistenza per trovare una soluzione. Scienziati e centri di ricerca pubblici e privati stanno studiando tecniche per estrarre dai rifiuti tecnologici questi materiali. L'Europa ci crede e punta al potenziale riuso di materie prime presenti nei rifiuti: quindi riciclo spinto e tracciabilità dei rifiuti elettrici ed elettronici dove queste materie sono presenti. In Italia, (come segnalato su Nòva del 6 giugno) ci sono aziende che si stanno specializzando in queste operazioni di riciclio. Recuperare materiali già usati è più economico che produrli ex novo, ma nel caso delle terre rare, spiega Cingolani non esiste ancora una tecnologia capace di riciclare in modo efficiente questi elementi. Un’altra strada che stanno percorrendo gli scienziati è quella di cercare dei sostituti in natura. Nuovi materiali con caratteristiche chimiche e fisiche simili. Anche in questo caso la ricerca per la produzione di elementi artificiali capaci di sostituire metalli più rari sta incontrando più ostacoli del previsto. Tanto che i big dell’elettronica di consumo e dell’it puntano a ottimizzare in fase di progettazione l’uso di questi elementi. «Non sono preoccupato per le telecomunicazioni e l’informatica – avverte lo scienziato italiano – . Per questi settori ci sono in prospettiva valide alternative. È l’energia il punto chiave». Le turbine eoliche fanno uso di terre rare. Così come i magneti permanenti che servono ai motori dei veicoli elettrici. Lantanio, cerio, noedimio e praseodimio sono fondamentali per la chimica delle batterie usate dalle auto ibride. «Ai fini dello storage, della catalisi, quello che conta sono gli atomi sulla superficie del materiale. La reattività chimica di un composto dipende dagli atomi sulla superficie. Se prendo un chilogrammo di metallo ha una superficie esposta. Se lo riduco in pezzetti piccoli piccoli la superficie complessiva aumenta. Per semplificare, se riusciamo a spezzettare una terra in frammenti più piccoli ne aumentiamo l’efficienza». Si tratta quindi di scolpire questi elementi con tecniche prese in prestito dalle nanotecnologie. «Le metodologie di sintesi sono molto complesse – spiega Cingolani – queste materie non si rompono meccanicamente, servono tecnologie di origine chimica su cui stiamo ancora lavorando». Per non passare da una dipendenza (petrolio) a un’altra, non resta che diversificare il più possibile il mix energetico.