Tutta colpa di Alessandra che mi ha intimato: "Mi raccomando finisci Max Payne 3 e poi mi saprai dire". Sulla carta finire il gioco Rockstar comportava – quantomeno per me – almeno una ventina d'ore di gioco. Sono passati due mesi e, senza infamia e senza lode, ho portato a termine la campagna in single player. In genere gli sparatutto, financo quelli in terza persona, dopo qualche ora di gioco ingranano il pilota automatico. Si va avanti per inerzia, è un po' come guidare in autostrada d'estate. Anche il titolo Rockstar non ha fatto eccezione. Ma solo all'inizio. Dopo qualche ora entra nella pelle. La voce narrante, le rughe scavate del poliziotto, lo stile narrativo del gioco stemperano il gameplay ripetitivo, i colpi di mitra e i brasiliani che si accartocciano per terra crivellati dal piombo. E' proprio vero che i dettagli in questi giochi sono tutto. Le favelas, i vicoli, le baracche, la San Paolo dei ricchi, yacth, bordelli: tutto ben ricrostruito, da manuale. Rockstar di solito sa il fatto suo quando c'è da immaginare mondi e girarci intorno con la scusa di un videogame. Il limite forse è il genere. Lo sparatutto è fondamentalmente un gioco dove ogni tre-quattro minuti devi sparare. Non si sgarra. E' come un porno. Ha tempi e ritmi codificati. Noioso. Anzi, noiosissimo. Ed è un peccato.