Ci sono giochi, sono pochi titoli a dire il vero, che hanno l'ambizione di interpretare un sentimento, uno stato d'animo, un'emozione. Raramente ci riescono, restano spesso intuizioni, buone sulla carta ma di difficile realizzazione. Se va bene vengono definite sperimentazioni pretenziose che piaccino molto alla critica ma poco ai giocatori. "Dipende da quello che vuoi ottenere da un videogame – ha spiegato a Nova24 Florence Kum, producer di Rain, videogioco mostrato all'E3 di Los Angeles – Il gameplay non è fine a se stesso ma deve essere messo al servizio di una storia". Rain è una esperienza interattiva per Ps3. Uscirà su Psn network (il servizio online di Playstation) in autunno. Diciamolo subito: è un gioco melanconico, come la pioggia che bagna un bambino. "Abbiamo cercato di evocare stati d'animo come la nostalgia e la melanconia. Ma la chiave di volta del gioco è la curosità si scoprire come la storia si svilupperà". Sei un bambino, un fantasma. Solo la pioggia ti rende visibile. La storia di Rain inizia così. Con un bambino smarrito, il rumore dell'acqua che cade e una città fantasma. Nelle prime sequenze di gioco intravvede la silhouette di una bambina che sembra come lui e che forse può raccontargli chi è e cosa sta accadendo. Prova a inseguirla ma viene braccato da mostri a quattro zampe. Per sfuggire a loro dovrà nascondersi dalla pioggia, inventare trucchi per non lasciare tracce. Giocare a Rain è un viaggio solitario e scuro. Stilisticamente è un acquarello a tinte sfumate. La città è grigia e austera come Parigi in un pomeriggio d'autunno. Artisticamente è un gioco che ha personalità. Tecnicamente invece è un adventure game, si corre, si salta e si scappa. Ma il gameplay è davvero un pretesto per scoprire come andrà a finire, quale è la storia del bambino, che relazione sapranno instaurare. Non è un inno alla nostaglia. Come scriveva Victor Hugo la malinconia è la gioia di sentirsi tristi.
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