Se il piccolo schermo di casa potesse parlare con ogni probabilità insulterebbe a morte il suo telespettatore. In poco più di mezzo secolo di storia ha subito ogni genere di affronto. Da caminetto elettronico, totem indiscusso per l’educazione dell’intera famiglia è passato ad essere solo uno dei tanti elettrodomestici di casa. È stato accusato di essere poco interattivo, ingombrante e grigio, poco vivace e antico nei contenuti. Ma più che altro di perdere ogni giorno fette di pubblico giovane. Se la tv di casa dovesse guardare con propri occhi il suo spettatore oggi vedrebbe con ogni probabilità un nonno-pensionato con telecomando alla mano, un papà distratto da un iPad, la mamma dalla posta elettronica e il figlio teenager ipnotizzato dal suo smartphone. Nell’ipotetica famiglia alla Simpson stretta su un divano solo un componente, quello più agée, sembrerebbe disposto a concedergli completa attenzione. Un recente studio di Npd è arrivato a calcolare che quasi nove americani su dieci (87%) se posseggono un "secondo" schermo" lo usano quando è accesa la tv. Che sia tablet, smartphone o portatile, purché consenta di interagire. Tra questi adepti del multi-tasking solo il 47% partecipa a attività create ad hoc per il secondo display, come ad esempio informarsi sugli attori, sullo show o effettuare acquisti sponsorizzati nel corso del programma. Il restante 53% fa altro, cioè ascolta la tv come una sorta di sottofondo alle proprie attività di social-intrattenimento o di social-organizzazione del quotidiano (lavoro e casa). In entrambi i casi preferisce altri schermi. Siamo quindi – come minacciano da tempo gli studi pro-internet – alla fine di un’epoca di teledipendenti? Nient’affatto. Secondo un approfondito studio di Accenture, "Video-Over-Internet Consumer Survey 2012: Vincere la battaglia per la fiducia del consumatore" lo schermo in soggiorno rimane il mezzo di comunicazione predominante, e continuerà a esserlo. Il luogo comune del giovane con lo smartphone e il nonno con il telecomando non sarebbe quindi indicativo di un cambiamento di abitudini mediatiche. I giovani di età compresa tra i 25 e i 34 anni guardano quasi 140 ore al mese di programmi televisivi "tradizionali", tempo 20 volte superiore alle ore che passano guardando i video su internet o sul telefonino. Più in generale quasi la metà degli spettatori continua a sedersi di fronte a un televisore e non davanti al tablet o allo smartphone. Semmai ad aver fallito è l’idea di rendere il televisore un oggetto interattivo e collettivo al tempo stesso. In altre parole, in crisi sarebbe il concetto di smart-tv, la cosiddetta tv connessa, di servizio, attiva, con le app e il telecomando-compromesso buono per navigare su internet e giocare ai videogame. Chi i televisori di mestieri li vende e non si occupa di cosa accade al loro interno continua però a credere nelle connected tv: «La televisione concepita come prodotto che si limita a ricevere canali televisivi è morta», commenta Paolo Sandri, vice presidente Audio Video e Home Appliance Samsung Electronics Italia, il brand che più di ogni altro sta credendo nelle tv "intelligenti". Secondo una ricerca GfK Eurisko commissionata dai coreani questi televisori nel primo trimestre crescono in termini di vendite (+50% rispetto all’anno prima) e hanno un peso in termini di fatturato di quasi 1 miliardo di euro nell’ultimo anno. Solo la metà dei felici proprietari di smart la connette alla banda larga. Questo dato lascia pensare che c’è chi preferisce il televisore bello ma "stupido" o al limite sceglie di affidarsi all’intelligenza di smartphone e tablet limitando il ruolo del piccolo schermo a quello di un monitor. Ciò che è chiaro è che chi controlla l’intelligenza dell’elettrodomestico ne controlla il business di domani. Lo sanno bene i probabili futuri padroni della televisione. Da ormai cinque anni i cosiddetti fornitori "over the top" (Ott), come Netflix e Hulu, che inviano i propri contenuti tramite internet ma anche i giganti del web e dell’elettronica come Amazon, Google, Intel e Apple stanno prendendo le misure del mercato tv. I primi la sfida con le emittenti televisive via cavo e i broadcaster la stanno vincendo. Netflix, per citare uno dei campioni della streaming, per la prima volta nel primo trimestre ha superato in termini di abbonamenti un colosso della tv via cavo come Hbo. Gli elettronici invece per ora planano come dei falchi sull’utente-spettatore. Apple da un po’ di anni è oggetto di rumors (e illazioni) su un suo ingresso "pesante" nel mercato televisivo. Intel ha promesso per la fine dell’anno un set-top-box multi-device per accedere a contenuti video ovunque, da qualsiasi dispositivo e comunque in streaming. Amazon sarebbe intenzionata (non ci sono conferme ufficiali) a lanciare una Kindle Tv, non ben definita. Dopo il fallimento della Google tv, è stato chiaro a tutti che il nodo non è la tecnologia ma i costosissimi diritti televisivi. Da qui gli annunci di questi giorni, con il lancio di canali a pagamento da parte di YouTube (Google), gli esperimenti di Amazon con le serie tv (episodi pilota di 14 serie televisive) e gli investimenti di Netflix in contenuti originali (House of Cards). Chi avrà contenuti premium di qualità vincerà la sfida sul piccolo schermo. Curiosamente però dal sondaggio di Gfk emerge con chiarezza che per il 58% dei telespettatori il valore percepito della smart tv è quello di venire riconosciuti, di sapere i nostri gusti e le nostre preferenze. Una tv che ci conosce e ci suggerisce cosa guardare. A ben vedere rappresenterebbe usando le parole di Eli Pariser (autore di «Filter Bubble») la personalizzazione più estrema delle tv su misura e quindi la morte della serendipity. Un incubo, anzi la vendetta del piccolo schermo.
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