Giovedì scorso sono volato a Palermo per partecipare all'università di Lettere all'incontro "A che gioco giochiamo: il videogame non solo per divertirsi". Il titolo non era un granché ma è stato interessante. C'era Veronica Di Leo, Broadband Content Product manager di Telecom Italia, Matteo Cristani, ricercatore presso la Facoltà di Scienze Matematiche Fisiche e Naturali dell'Università di Verona, Daniele La Barbera, ordinario di Psichiatria dell'Università di Palermo e Augusto Pirovano, ideatore di Critical City. Parlare di videogiochi è assai meno divertente di giocarci. Questo credo che valga in generale anche per musica e letteratura e cinema. Comunque dipende anche dallo spirito di chi partecipa. In questa occasione l'aula era di studenti del corso di semiotica. "Sono del primo anno", ci ha spiegato il professore col tono di chi nutre un leggero disgusto nei confronti non si è capito bene se dei ragazzi, della loro età o della loro scelta di frequentare il suo corso. A parte qualche commento sarcastico sulla Gelmini accolto con benevolenza e rassegnazione da parte degli altri docenti presenti alla chiacchiera non ha mostrato grande interesse per i videogame. Eppure, il mezzo videoludico si sarebbe prestato benissimo a un suo contributo. Comunque. E' stato interessante ascoltare l'intervento di uno psichiatria realmente interessato a studiare gli effetti dell'interattività videoludica. Così come ho trovato stimolante Matteo Cristiani più interessato alle logiche di rete dietro i social game. Ma più sorprendente l'entusiasmo di alcuni studenti che mi hanno confidato essere interessati a sperimentare il design di videogame per lanciare messaggi. Mi hanno chiesto come e dove imparare a progettare giochi per il web e a chi rivolgersi per lanciare progetti di comunicazione videoludica. Erano entusiasti e determinati. Ma dopo esserci scambiati alcuni pareri e aver preso confidenza hanno subito messo in chiaro che l'obiettivo vero era scappare da Palermo e dall'Italia. Nelle loro parole non c'era rancore o rimpianto. Mi sono sembrati lucidi e apatici. "Qui non si combina niente", si sono lasciati sfuggire con la rassegnazione di chi non ha tempo né voglia di lamentarsi con nessuno. Fuori dall'aula, forse condizionato da quanto mi avevano appena detto, i ragazzi del campus mi sembravano mossi da una malinconia trascinata che ho conosciuto bene ai tempi dell'univeristà. Quell'ineluttabilità triste che conosci a vent'anni. Per un attimo mi sono dimenticato della Gelmini e ho pensato che fosse l'età. Ma solo per un attimo.
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Fuori dall'università, in un bar per studenti ho scoperto il tunisino. Un panino con salsiccia, crudo, fiordilatte e tonno. Dovrei essere vegetariano ma non quando viaggio. Ne ho mangiati due.