La solitudine reale di Kiss me first

 
La realtà virtuale è il modo più veloce e claustrofobico per sentirsi soli. Kiss me first è una serie britannica che trovate su Netflix. Di quelle che sembrano volere partire dalle tecnologie per parlare esplicitamente di altro. In questo caso siamo dentro Azana, un videogioco online a cui si accede attraverso un visore 3D di realtà virtuale. Leila è una giocatrice di vecchia data, con un presente reso ancora più difficile dalla perdita della madre. Viene invitata ad accedere a Red Pill un’area del gioco dove non valgono le regole di Azana e dove un gruppo di persone tutte in qualche modo illuminate e disadattate vanno alla ricerca di qualche cosa di non definito ma pericoloso. Un segreto renderà questa esperienza un viaggio di sola andata.
La serie è tratta da un omonimo romanzo di Lottie Moggach pubblicato da Nord in Italia. Nel libro l’identità e l’accettazione di chi siamo e di chi possiamo fingere di essere sono i tre cardini attorno ai quali ruota la storia. Nella serie invece c’è un senso di solitudine malato stemperato dal bisogno di raccontare una storia che cammina tra realtà virtuale e reale. Non c’è nulla di sbagliato ma nulla è davvero convincente in una serie che promette tanto e si accontenta di restare sulla superficie. Eppure, ci sarebbe tantissimo da dire sul nostro essere multipli e soli nel cercare identità online.