Arabi , israeliani, pietre e fucile e l'intifada diventa una serie tv

 
 
Fauda in arabo vuol dire caos. E’ una serie televisiva israeliana trasmessa nel 2015  sul canale Yes Oh e a dicembre dell’anno successivo ha debuttato in Italia su Netflix.  Se qualcuno se l’è persa va affrontata. Come è immaginabile parla del conflitto arabo-israeliano, protagonista Doron, un ex agente segreto israeliano che rientra in servizio per dare la caccia a Pantera, un combattente palestinese che pensava di avere ucciso. Non è un documentario e neppure una serie impegnata. Come è intuibile la serie è ambientata ai giorni nostri. E come è prevedibile per tutti coloro che hanno seguito, manifestato o giudicato quanto è successo nella storia più recente della Palestina, Fauda è un pugno nello stomaco.
Nel senso che la serie per quanto volutamente d’azione, volutamente pop e volutamente ispirata a 24 tocca e rappresenta un pezzo della storia del Novecento, un incubo irrisolto che si trascina fino ai giorni nostri. Gli sceneggiatori sono stati attentissimi a non uscire dal genere “action”. Ma il messaggio, fin troppo chiaro fin dall’inzio,  è banalmente comprensibile: non c’è un buono e un cattivo, non ci sono vincitori ma solo perdenti, disperati e rabbiosi. Perdono tutti in Fauda, palestinesi e israeliani, anche se il punto di vista è sempre quello degli agenti di Doron. Chi ha creato la serie è infatti Lior Raz e Avi Issacharoff. Il primo è anche attore protagonista e insieme al secondo ha in comune l’esperienza di servizio militare nell’unità Duvdevan delle Forze di difesa israeliane. Doron è ossessione, il soldato prigioniero della sua missione, del suo essere in guerra, incapace di uscire dalla spirale di violenza. Hamas e i terroristi palestinesi sono rappresentati nella loro declinazione più integralista: odiano, pregano e sognano il martirio. Dalla prima alla seconda stagione ti aspetti l’esagerazione, il colpo di mano, ti aspetti che la serie scenda in campo, si tolga la maschera per tifare apertamente Doron e il suo gruppo. Così non è. O quantomeno il giudizio c’è ma resta spietato, per tutti. Se ascoltata in lingua originale il passaggio dell’ebraico all’arabo, i momenti di vita privata, di convivialità, di vita quotidiana sono la parte meglio riuscita di un racconto che con la scusa di rappresentare un thriller indugia su uno dei più intrigati nodi della nostra storia.