La periferia meno nobile dell’industria dei videogame è a qualche decina di metri dalla South Hall del Los Angeles Convention center. Lontano dalle luci stroboscopiche e dagli effetti speciali dell’E3, la fiera più grande del mondo dedicata ai videogiochi che si è conclusa la settimana scorsa in California. Quasi nascoste dagli occhi dei big dell’intrattenimento elettronico. Un paesaggio di banchetti carichi di periferiche, pistole di plastica, sedili gonfiabili a forma di go-kart, insomma accessori di varia natura. «Passiamo per essere dei moderni giocattolai – racconta un produttore taiwanese –. Ma più passa il tempo più tutto il settore assomiglia a un Luna Park». A queste parole Kazuo Hirai il numero uno di Sony Entertainment risponde storcendo il naso. «Macché giocattoli – protesta –. Tecnologie come il 3D integrato con il controller Move richiedono anni di investimenti in ricerca e sviluppo, e anche un sistema complesso di attori per produrre contenuti e di sviluppatori per lavorare sul software, dove tutti devono fare la propria parte».
In effetti, il gaming è un ecosistema che finora ha avuto il merito di portare sul mercato nuove tecnologie, bruciando sul tempo altri comparti dell’elettronica di consumo. Esempi in questo senso non mancano: i videogiochi hanno praticato l’online almeno tredici anni prima della televisione che solo ora sta conducendo prove di interattvità. Grazie a Nintendo Ds la filosofia del touch ha anticipato di un paio di anni il boom di iPhone e affini. Il grande pubblico ha scoperto cosa fossero sensori di movimento, accelerometri e giroscopi grazie alla Wii. E ora la stereoscopia che, pur essendo una tecnologia «antica», ha trovato nelle console e nella capacità di eleborazione dei chip la sorgente ideale per produrre in real time la terza dimensione.
Insomma, altro che giocattoli. Le console con la scusa del gioco hanno introdotto sensori, interfacce, software, giroscopi, chip grafici: tecnologia a basso costo. Quest’anno poi i tre big dell’E3 hanno spremuto nuovo hardware che promette esperienze di gioco più immersive (3D) e interazioni uomo-macchina ancora più naturali. Kinect, il sensore di Microsoft sulla carta è il più rivoluzionario. Il sistema di gioco sviluppato internamente da Redmond con tecnologia dell’israeliana PrimeSense effettivamente riconosce la voce e il movimento del corpo, promette nuove forme di interazione senza l’intermediazione del controller. Quanto a Nintendo erano quindici anni che cercava di ottenere effetti 3D sulle console portatili. Precisamente da quando nel 1995 fecero flop con Virtual Boy, una macchina da gioco nata con l’ambizione di ricreare attraverso un complesso sistema di specchi oscillanti, e led effetti stereoscopi il 3D. Solo oggi sono riusciti nell’intento, eliminando addirittura gli occhialini. Muovendo una leva l’immagine acquista profondità con un effetto ologramma. Una piccola magia ottenuta evidentemente grazie a sforzi titanici.
Queste tecnologie tra pochi mesi saranno in commercio. Ad attenderle non ci sono solo programmatori più o meno entusiasti. Le associazioni dei consumatori con i coltelli tra i denti si apprestano a valutare l’impatto di questi nuove forme di interattività sulla salute. Ma anche con diverso intento i laboratori e le università. O semplicemente gli hacker che smonteranno pezzo a pezzo questi device per inventare nuovi oggetti in barba alla proprietà intellettuale. I più interessati però sono gli studiosi del rapporto uomo-macchina. L’immersività del 3D e le nuove periferiche di gioco consentono un interazione più naturale con i mondi sintetici spostando più in là i confine della loro materia di studio, abbracciando le categorie proprie della psicologia sociale. «C’è una rivoluzione in atto», commenta Luca Chittaro professore di interazione uomo-macchina dell’Università di Udine. «Fino a qualche anno fa gli studi di questo tipo si ispiravano alla psicologia cognitiva. Si misuravano le performance dell’individuo che usa la macchina. Ora invece si analizzano le reazioni fisiologiche del corpo a questi agenti virtuali. E si osserva che le persone in relazione tra loro e con le macchine hanno comportamenti fisiologici molto simili». In sostanza, percepiamo il virtuale come se fosse reale. Se questo è vero, questi giocattoli potrebbero comprendere come siamo fatti. E potrebbero diventare degli specchi attraverso i quali poterci guardare. I videogiochi hanno poco meno di quarant’anni. Ma la ricerca sembra essere inziata solo ora.