Artificio digitalis

Nel milletrecento l’artificio era un congegno per ottenere «brillamenti ed esplosioni», insomma un effetto speciale. Poi, come d’uopo accade, il significato della parola si è esteso per indicare l’abilità nell’eseguire un’opera, un espediente, un trucco e addirittura un’astuzia. Nell’anno 2010 l’artificio ha perso quel suono meccanico di ingranaggi ottocentesco per assumere una accezione silenziosa, digitale e inedita: artificio è ciò che tiene insieme ingegneri, visual artist e talenti degli effetti speciali. Una comunità di professionisti che si divide tra cinema, animazione e videogiochi. Che ha dato vita a studios piccolissimi ma di talento. Come Andy Serkis, l’attore che dopo aver agitato lo schizofrenico Gollum del Signore degli Anelli ha fondato The Imaginarium, una piccolissima società di produzione abilissima nella tecnica del motion capture, tanto da prestare il suo talento per infondere umanità nei personaggi dei videogame. Non un informatico bensì un attore esperto di tecniche cinematografiche che ha trovato nel gaming un nuovo futuro. Percorso al contrario di quello intrapreso da Paul Franklin fondatore della Double Negative, lo studio che ha "piegato" Parigi spostando ancora più in alto l’asticella degli effetti visivi. Per realizzare questo artificio non ha impiegato alcuna nuova tecnologia ma solo modellini in scala e computer grafica. Una alchimia unica nel suo genere per una industria, quella degli effetti speciali, che assomiglia sempre di più a un artigianato raffinatissimo ma di altissima tecnologia. «Per tutti gli anni novanta, il mercato se lo spartivano in due: Pixar e Industrial Light and Magic. Due colossi che possedevano i programmi e i computer per creare effetti speciali», racconta Daniele Bigi, sviluppatore Lead Lighter/Look per la MPC. atteso a Torino la prossima settimana per partecipare a View. Per anni hanno alimentato quanto di più stupefacente esprime il grande schermo. Poi qualche cosa è cambiato. Software strabilianti come RenderMan di Pixar sono stati messi in vendita, un certo cinema – quello più ricco – ha cominciato a chiedere sempre più visual effect, piccole case di sviluppo hanno imparato a pubblicare i loro lavori in computer grafica su internet insomma, i software liberati hanno in qualche modo creato uno standard per il mercato.

Nell’equazione degli artifici il risultato quasi esclusivamente dall’incontro di saperi diversi, dall’abilità artigianale di sperimentare tecniche che parlano altre lingue: artisti e ingegneri quindi, estetica e matematica, disegno e codice. In questa equazione l’Italia c’è e non c’è. Eppure, la tradizione artistica del fumetto, la comunità open source, le scuole meriterebbero una maggiore presenza. Lo dimostra la storia per certi versi epica dei molti talenti costretti a inseguire all’estero l’industria dei visual effect. Guido Quaroni, supervisore tecnico di Toy Story 3 alla Pixar, per imparare spese 14 milioni di vecchie lire per comprarsi un NeXt un computer che oggi non esiste più. Lo stesso Daniele Bigi imparò la computer grafica all’università perché solo i laboratori del Politecnico si potevano permettere i programmi adatti per sviluppare grafica in 3D. «Oggi è tutto cambiato – racconta –. Con un software open source come Blender (www.blender.org/) e un computer da poche migliaia di euro puoi già realizzare un cortometraggio e postarlo su forum online. Semmai mancano gli italiani che producono paper scientifici, che lavorano insomma, sugli algoritmi». La ricerca nell’animazione come negli effetti speciali si alimenta anche grazie a ricercatori spesso indipendenti, a volte poco o per nulla interessati agli effetti speciali.

«Dobbiamo a un matematico le formule di Global illumination che servono a illuminare gli ambienti A un fisico quelle per accelerare il 3D. Questi tecniche sperimentati per la prima volta nel film «I Pirati dei Caraibi» hanno condizionato gran parte dei blockbuster odierni». Nel 1985 fece "rumore" il Perlin Noise un algoritmo premiato con Oscar per la tecnica dalla Academy of Motion Picture Arts and Sciences che consente di riprodurre in maniera realistica le animazioni digitali. L’autore di questa formula è Ken Perlin, professore di Computer Science alla NYU Media Research, un artista-scienziato che oggi si occupa di gaming, interfacce e animazioni e bene interpreta il momento sperimentale che sta vivendo l’industria degli artifici. Le tecnologie non sono tutto, avverte: «Molti artisti – ha spiegato a Nòva24 – stanno usando media in modo assolutamente inedito. Hanno imparato ad adattarsi ai media. Ma conterà sempre quello che hanno da dire». Del resto, il segreto dell’artificio è la sua intuizione.

pubblicato su Nova24 del 21 ottobre