Il divino ludico, il sacro nei videogame, l’uso di icone religiose nei giochi elettronici racconta bene una generazione di game designer inquieta e coraggiosa che rischia, contamina e si avventura laddove forse non dovrebbe. Non sono ribelli, va detto, militano nel salotto buono delle console ma non per questo intendono percorrere i cliché di un’industria che da alcuni anni non osa, è timida, insomma pare un po’ troppo uguale a se stessa. Ecco perché, incontrare le persone dietro ai titoli più irriverenti e sperimentali di questi ultimi mesi dovrebbe rivelare le riletture più ardite di quella parte della game culture che usa l’interazione digitale per giocare tra generi e archetipi lontani. Dovrebbe, perché in questa industria nulla è quello che sembra.
El Shaddai: Ascension of the Metatron è un gioco per console uscito qualche mese fa. Come si può intuire dal titolo gli sviluppatori di Utv Ignition hanno ampiamente riletto un testo apocrifo dell’Antico Testamento, il Libro di Enoch scegliendo appunto come protagonista Enoch. Ampiamente non è l’avverbio adatto. Nel videogioco sei Enoch, una sorta di rock star di bianco vestita chiamata ad affrontare sette Grigori. Trattasi di sette angeli caduti che hanno ceduto ai vizi del mondo. Dio, si legge nella trama, siccome sei un guerriero giusto e dal cuore puro, ti chiede di rimetterli in riga altrimenti potrebbero abbandonarsi al peccato. Di fatto ci si accorge subito che hanno ceduto al lato oscuro e sono propensi a distruggere il mondo. Toccherà affrontarli e batterli nel modo più ovvio conosciuto nei videogame, ovvero menando fendenti. Meno banale è l’ispirazione. Shane Bettenhausen – il lead producer del gioco – quando gli viene chiesto semplicemente "perché" diventa subito evasivo. Ricorda che Ugv Ingition nasce dall’unione di due case di sviluppo di software, una con sede a Mumbai ma inglese d’adozione e l’altra di stanza a Tokyo. «La contaminazione è nel nostro Dna», sorride. Di fatto nel gioco ci sono platform giapponesi, balletti alla Bollywood e dialoghi da filmetto di serie B. Più che un tour psichedelico dei miti dell’Antico Testamento pare un incubo dadaista che di religioso non ha nulla. È la gloriosa contaminazione di generi mistici. Di mito invece si nutre o almeno si dovrebbe nutrire Asura’s Wrath. Nell’induismo Asura indica divinità dedite al peccato. Nell’avventura sviluppata da Capcom, Asura è invece un semidio inquieto ma retto, cui ne hanno combinate di tutti i colori, tanto da indurlo a scendere in guerra con divinità lascive, cloni di Budda grandi come pianeti e creature alcolizzate e corrotte. Un minestrone di fantascienza e divinità asiatiche che fa venire il mal di testa. Kasuhiro Tsuyachiya e Hiroshi Matsuyama, i due producer del gioco si presentano con boccacce, urletti e simulando colpi da Kung Fu. Alla Capcom ci sono abituati e assicurano che è tutto normale. Quando sentono la parola "religione" Matsuyana quasi scusandosi mi conferma che «quella degli dei» sembrava loro una buona idea per rendere più interessante il gioco. In realtà l’ispirazione è la rabbia. «Il videogioco parla della furia di un semidio, della vendetta contro divinità arroganti», aggiunge Tsuyachiya, quello che fa più smorfie di tutti.
Insomma, più che essere un’ispirazione il sacro è un pretesto, anzi il contorno. Eppure, l’ispirazione è l’oggetto della ricerca dei game designer più intraprendenti, quelli che sembrano aver fretta di portare nuove trame e temi più adulti nel mondo del gaming. David Cage, l’autore di Heavy Rain, il primo romanzo interattivo finalmente non banale venduto come videogioco è partito dall’amore implacabile di un padre per un figlio. Ma è su Jenova Chen che sono puntati gli occhi di tutta un’industria, e sull’uscita di Journey, un’avventura mistica e sacra, una parabola interattiva attesa da tre anni dagli appassionati.
A Los Angeles all’E3, la fiera più glamour dedicata al prodotto videoludico, Jenova Chen si aggirava tra i corridoi come un bambino in un ufficio. «Stanno tutti davanti a giochi in cui si spara, si combatte, si lotta. Sembrano ipnotizzati. C’è sempre qualche cosa da dover fare online. Missioni da compiere, draghi da uccidere. Non lo trovate noioso?». Una premessa va fatta: Jenova Chen è il direttore creativo di Thatgamecompany. Loro stanno all’industria dei videogame come i Grateful Dead alla musica degli anni Settanta. Journey è un’avventura intimista e magica. Dune di sabbia, le rovine di una civiltà dimenticata, suono e vento. Le vibrazioni dei bassi, gli archi, gli spazi vuoti e l’orizzonte giallo che taglia lo schermo. Un avatar stilizzato, rigido, un volto nero incorniciato da un mantello rosso leggero. Si è soli. Altri giocatori si possono affiancare a voi, condividere un tratto di percorso ma è un dialogo silente. Ognuno è parte di una ricerca anonima e collettiva. Journey è stato definito un’esperienza intimista, quasi mistica. Forse si esagera, ma certamente c’è un riflesso religioso che conduce altrove. In questo deserto non c’è traccia di cultura pop né icone videoludiche riconoscibili o meccaniche di gioco tradizionali. C’è una trama, questo sì ma il gioco è la scoperta di chi siamo e da dove veniamo.
Per la prima volta si intravede distintamente un inizio di ricerca che mette il giocatore-utente al centro di un’esperienza interattiva che si esprime unicamente attraverso il medium ludico. La relazione con gli altri non ha bisogno di semidei e divinità per introdurre nuove esperienze o provocare. È un intrattenimento che tocca corde più profonde, intenso come una preghiera.
da Domenica del 28 aprile