Il divino ludico, il sacro nei videogame, l’uso di icone religiose nei giochi elettronici racconta bene una generazione di game designer inquieta e coraggiosa che rischia, contamina e si avventura laddove forse non dovrebbe. Non sono ribelli, va detto, militano nel salotto buono delle console ma non per questo intendono percorrere i cliché di un’industria che da alcuni anni non osa, è timida, insomma pare un po’ troppo uguale a se stessa. Ecco perché, incontrare le persone dietro ai titoli più irriverenti e sperimentali di questi ultimi mesi dovrebbe rivelare le riletture più ardite di quella parte della game culture che usa l’interazione digitale per giocare tra generi e archetipi lontani. Dovrebbe, perché in questa industria nulla è quello che sembra.
Insomma, più che essere un’ispirazione il sacro è un pretesto, anzi il contorno. Eppure, l’ispirazione è l’oggetto della ricerca dei game designer più intraprendenti, quelli che sembrano aver fretta di portare nuove trame e temi più adulti nel mondo del gaming. David Cage, l’autore di Heavy Rain, il primo romanzo interattivo finalmente non banale venduto come videogioco è partito dall’amore implacabile di un padre per un figlio. Ma è su Jenova Chen che sono puntati gli occhi di tutta un’industria, e sull’uscita di Journey, un’avventura mistica e sacra, una parabola interattiva attesa da tre anni dagli appassionati.
A Los Angeles all’E3, la fiera più glamour dedicata al prodotto videoludico, Jenova Chen si aggirava tra i corridoi come un bambino in un ufficio. «Stanno tutti davanti a giochi in cui si spara, si combatte, si lotta. Sembrano ipnotizzati. C’è sempre qualche cosa da dover fare online. Missioni da compiere, draghi da uccidere. Non lo trovate noioso?». Una premessa va fatta: Jenova Chen è il direttore creativo di Thatgamecompany. Loro stanno all’industria dei videogame come i Grateful Dead alla musica degli anni Settanta. Journey è un’avventura intimista e magica. Dune di sabbia, le rovine di una civiltà dimenticata, suono e vento. Le vibrazioni dei bassi, gli archi, gli spazi vuoti e l’orizzonte giallo che taglia lo schermo. Un avatar stilizzato, rigido, un volto nero incorniciato da un mantello rosso leggero. Si è soli. Altri giocatori si possono affiancare a voi, condividere un tratto di percorso ma è un dialogo silente. Ognuno è parte di una ricerca anonima e collettiva. Journey è stato definito un’esperienza intimista, quasi mistica. Forse si esagera, ma certamente c’è un riflesso religioso che conduce altrove. In questo deserto non c’è traccia di cultura pop né icone videoludiche riconoscibili o meccaniche di gioco tradizionali. C’è una trama, questo sì ma il gioco è la scoperta di chi siamo e da dove veniamo.
Per la prima volta si intravede distintamente un inizio di ricerca che mette il giocatore-utente al centro di un’esperienza interattiva che si esprime unicamente attraverso il medium ludico. La relazione con gli altri non ha bisogno di semidei e divinità per introdurre nuove esperienze o provocare. È un intrattenimento che tocca corde più profonde, intenso come una preghiera.
da Domenica del 28 aprile