Sul treno di ritorno dal Games Forum

Games Forum Aesvi. L'industria del videogioco incontra la politica. Bruno Vespa, Mariastella Gelmini, Carlo Giovanardi. Doveva esserci anche la Mussolini, cioè dico la Mussolini. Appuntamento a Palazzo San Macuto. Giacca obbligatoria. Cravatta gradita.

Qualsiasi compromesso va bene. Poter ascoltare il senatore Giovanardi parlare di videogiochi è una esperienza irrinunciabile. Morbosa come uno speciale su Sara Scazzi. Ero ipnotizzato e felice. Volevo il censore, lo ammetto. Volevo la mia dose di nonsense, di condanna, di dito puntato, di sconsiderata critica al nuovismo. Volevo la governante manesca del centrodestra, volevo sentire dire “fa male”. Volevo indignarmi dell'indignato. E come al solito volevo troppo. Il politico democristiano è stato appunto democristiano. Ragionevole all'eccesso, addirittura buonista. Si è un po' irrigidito con quel 7% di giovani che gioca più di tre ore al giorno. Ma lo si può perdonare. Meno quando poi ha ammonito duramente i giochi d'azzardo perché accusato di creare dipendenza. Il che in sé è ineccepibile. Il punto è che l'Aesvi, l'associazione che ha organizzato l'evento non rappresenta il gioco d'azzardo poker online e altri tipi di gambling. Ma non fa niente. Con tutti gli impegni che i politici sono chiamati a coprire non si può pretendere che sappiano tutto. Ti aspetti che arriveranno carichi di pregiudizi e usciranno esattamente come sono entrati. E non vuoi essere deluso. Ma in fondo è giusto così. Prendersela con la politica è da deboli. Ed è anche un po' facile. Anche perché gli onorevoli presenti si sono dimostrati a parole attenti. Antonio Palmieri del centrodestra e Paolo Gentiloni di centro sinistra hanno speso parole ragionevoli dimostrando curiosità e attenzione verso un nuovo e giovanissimo medium. Valentina Aprea è sembrata la più positiva di tutti verso l'impatto delle nuove tecnologie sulla scuola. Anche da Mariastella parole positive sui videogame, parole che hanno rasserenato i rappresentanti dell'industria. “Un grande risultato”, si confidavano a bassa voce gonfiando il petto. Qualcuno sventolava con toni trionfali il messaggio scritto del ministro allo sviluppo economico Paolo Romani. Anchesso ragionevole e cordiale. Insomma, un successo. Ma Giovanardi a parte, mi sono chiesto, come sarebbe potuta andare male. Come si può “andare male”. I videogiochi in Italia fanno un miliardo di euro di fatturato. Va quasi tutto a Nintendo, Microsoft e Sony. Due giapponesi e una americana. Di prodotto italiano c'è poco, pochissimo. Sono una sessantina le aziende produttrici e il 70 percento ha giri d'affari che non superano i 250mila euro. Con qualche interessante eccezione siamo piccolissimi. Eppure, nel mondo, già da un paio di anni l'industria del gioco genera più soldi di hollywood. Insieme a cinema, editoria e televisione anche il comparto videoludico è parte dell'offerta culturale. Ed esattamente come cinema, editoria e televisione esprime un genere di intrattenimento che può piacere o lasciarci del tutto indifferenti. Oppure farci un po' schifo. Ma se gli studi hanno ragione, se davvero gli italiani consumano videogichi come francesi e inglesi. Se i genitori di famiglia su cinque addirittura giocano con i propri figli ai videogame. Se insomma ci piace l'intrattenimento elettronico tanto che chi vuole diventare game designer emigra all'estero senza battere ciglio. Tanto da lamentarci per non riuscire a sfruttare i nostri talenti del fumetto italiano o le storie dei nostri scrittori per scrivere giochi. Se infine davvero ci piace la Wii e Farmville, i giochi di carte sul computer e Fifa perché allora abbiamo bisogno di prendercela con Giovanardi?