Il trauma. Alla fine degli anni novanta, io e un mio amico fummo spediti in stage dalla scuola di giornalismo alla Regione Lombardia. Furono sette giorni indimenticabili. Nessuno ci faceva fare nulla, eravamo costantemente tenuti d’occhio manco fossimo spie del Kgb e contestualmente temuti da giornalisti dell’ufficio stampa per un motivo che tutt’ora mi sfugge. Capito l’andazzo, ce ne facemmo subito una ragione, anche perché nessuno dei due aspirava a rubare la sedia ai colleghi. Decidemmo così di sfruttare il nostro tempo in modo più proficuo, tipo chattando su internet. Io scelsi come nick Corvo rosso (mi piacciono gli indiani comunisti). Lui, dimostrando più fantasia, prese il nome di Beth fingendo di essere una diciottennte irlandese in visita a Milano. Fece le cose per bene, chattando in inglese con punte di gaelico. Naturalmente fece strage di cuori. Uno in particolare, un ragazzo umbro, perse completamente la testa e minacciò di piombare a Milano per un incontro al buio. Dopo un lungo conciliabolo tra me e il mio amico, decidemmo di raccontare la verità. Lui, l’umbro, ci restò parecchio male, e anche i tipi in chat ci coprirono giustamente di insulti. Concludemmo lo stage sinceramente avviliti e consci di aver ferito i sentimenti di una persona. Da quel giorno cerco di essere molto attento quando mi immergo nel digitale. Naturalmente mi diverto anche io ma con misura. Anche l’amico ha fatto tesoro dell’esperienza. Ultimamente, mi ha raccontato, ha assunto l’identità di Sarah e chatta in ebraico antico.
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