«C’è un paradosso a monte: si vogliono conservare in maniera permanente oggetti e informazioni che sono effimeri per natura, che sono nati per morire rapidamente. La specificità dei dati digitali è l’interazione, il continuo intervento degli utenti o, in altri termini, quello che Henry Jenkins chiama la cultura partecipativa: le fonti digitali sono quindi oggetti fluidi e dinamici che cambiano nel corso del tempo anche in ragione di questa natura interattiva e collaborativa». Il mestiere dello storico dei media non può che partire da questa osservazione: a differenza di lettere, documenti e libri, alcune fonti digitali vivono in un ecosistema che dà loro senso e da cui sarebbe scorretto isolarle. Gabriele Balbi è uno storico dei media, studia all’Istituto di Media e Giornalismo dell’Università della Svizzera italiana di Lugano e data la giovane età ha una idea chiara su cosa, come e dove conservare i documenti digitali.
«Senza dubbi – spiega – per narrare la storia dei mass media, delle telecomunicazioni e dei nuovi media nel tardo XX secolo gli studiosi dovranno confrontarsi anche con le fonti digitali». Non solo loro. Molti fatti di cronaca, moltissimi eventi nazionali e internazionali sono raccontati, commentati e denunciati sui social network, nei filmati di Youtube, nei blog. Dai terremoti alle elezioni americane, il ruolo che ricoprono i social media è diventato tale da non poter sfuggire un domani all’analisi di uno storico.
«Proprio per questo occorre porsi da subito due domande: chi e come conservare. Può sembrare anche qui paradossale. Sebbene apparentemente ci troviamo di fronte a una sovrabbondanza di fonti rispetto al passato, è altrettanto vero che se nessuno si occupa di archiviare queste informazioni, di salvare, per fare un esempio, i video di youtube, allora questi dati digitali rischiano di venire cancellate e anche molto velocemente».
Da qui la prima domanda da porsi nei panni di uno storico. Chi professionalmente conserverà il racconto digitale di questo inizio secolo? Per rispondere a questa domanda occorre però guardare al passato. «Considerando schematicamente la storia della conservazione analogica, almeno fino all’invenzione della stampa nel XVI secolo il monopolio della conservazione del passato è stato sostanzialmente detenuto dalle istituzioni religiose. Questo potere è diventato via via più laico nei secoli XVIII e XIX, quando sono stati istituiti musei e archivi pubblici. Nel XX secolo il potere della memoria è stato condiviso da istituzioni pubbliche e aziende private, come ad esempio radio ed emittenti televisive. Con la digitalizzazione, e qui arriviamo all’oggi, il potere di conservazione sembra essere stato messo di nuovo in gioco e, probabilmente, il significato stesso di potere derivante dalla preservazione del passato è destinato a cambiare. Con le vecchie fonti la regolazione era nazionale o locale. Un museo o una biblioteca ha il dovere di conservare almeno una copia delle fonti che hanno fatto la storia del proprio paese. Con internet e con le fonti si perde il concetto nazionale. Che nazionalità ha un sito web? I soggetti pubblici paiono meno interessati a spendere soldi per conservare materiali che non sono strettamente nazionali. Le aziende private, dal canto loro, hanno lanciato diversi progetti (ad esempio The Internet Archive) ma è giusto affidare la conservazione del passato in mani private? Se un domani per questioni di bilancio una aziende editoriale dovesse essere costretta a spegnere i propri server cancellando pezzi di storia non solo del suo giornale ma del suo paese il danno per la cultura sarebbe immenso. Che fare? O si decide che conservare è un asset politico internazionale. Oppure ci si affida a partnership tra pubblico privato che però non sempre hanno funzionato bene. L’altra strada è quella di lanciare iniziative con i migliori storici del presente: gli utenti ovvero coloro che gelosamente nelle loro mediateche conservano pezzi di storia».
Dopo esserci domandati "chi" è bene chiedersi cosa conservare e come. «Anche qui ci troviamo di fronte a un paradosso. I dati digitali diventano rapidamente obsoleti sia causa dell’hardware sia della loro organizzazione. Paradossalmente lo storico ambisce da un lato a mantenere l’informazione digitale come è stata creata, dall’altro vuole accesso a questo dato dinamicamente con gli strumenti più avanzati. «In altre parole – precisa – pur aspirando a conservare l’originalità della fonte digitale, ci scontriamo con un’inevitabile obsolescenza dell’hardware e del software: quindi, se vogliamo mantenere i materiali digitali realmente nella loro forma originaria, essi a breve possono diventare inaccessibili, impossibili da leggere proprio per la mancanza di supporti in grado di decifrarli».
Paradossi e problemi di poltica della conservazione a parte c’è una domanda a monte. Fino a ora l’archiviazione del passato era un’ attività svolta da chi in qualche modo deteneva il potere (Stati nazionali e Chiesa). Il digitale rischia di sovvertire questo ordine. Se è vero che la narrazione della storia e dei fatti passerà sempre più attraverso i server collegati a internet, chi possiede le macchine è il custode di una mole di dati che negli anni diverranno oggetto di studio degli storici. Sarà bene domandarsi se la digitalizzazione scioglierà a favore degli utenti la memoria collettiva oppure si concentrerà in mani privati. In altri termini: chi ricoprirà nel 2060 il ruolo che nel medioevo hanno svolto i monasteri?
pubblicato su nova dell'8 aprile