Chiedere a Paolo Gargini, Intel fellow e direttore delle strategie per la ricerca tecnologica, di commentare l’attualità della legge di Moore significa incappare in una gaffe. «Lasci che le spieghi – sospira l’ingegnere di origini fiorentine – io invece di averla letta sui giornali l’ho discussa direttamente con lui nel suo ufficio. E le posso assicurare che è stata spesso fraintesa. Non si tratta di una legge fisica ma di una predizione economica, nata da una osservazione e da una volontà di stimolare il mercato». Quando Moore nel 1965 previde che le componenti (e quindi le prestazioni) dei microprocessori sarebbero raddoppiate ogni due anni, diede il ritmo di sviluppo della tecnologia elettronica per tutti gli anni ottanta e novanta. «La prima persona a stupirsi che questa legge valesse a dieci anni di distanza fu proprio Moore – aggiunge Gargini –. E peraltro sarà valida per il prossimo decennio. Quello che è cambiato è che mentre negli anni 80-90 la ricerca nei semiconduttori era indirizzata a migliorare le prestazioni a velocità più alta, ora si lavora su circuiti a bassa potenza che consumino il meno possibile».
Gargini ricorda tutto: di quando negli anni Novanta il Pentium montava 3,7 milioni di transistor e di come oggi un normale circuito integrato ne possieda 3 miliardi. È un libro aperto su quarant’anni di storia dell’informatica e dei computer. Ed è in visita in Italia (da più di trent’anni lavora negli States) per presentare i primi risultati della roadmap 2025, ovvero la mappa che traccia il futuro dei microprocessori nei prossimi quindici anni.
«Progettare l’innovazione è il mio lavoro. E in qualche modo c’è del made in Italy nel modo che ha Intel di pensare al futuro. Immaginate di avere tre-quattro orologi che funzionano su tempi. La ricerca tecnologia avanza su un passo di 10-15 anni. Le grandi invenzioni su 100 anni. L’introduzione di nuove tecnologie su due anni. Sincronizzare tutti questi elementi intermedi è una chiave di successo per chi deve arrivare prima degli altri. Io mi occupo di progettare il 2025. Il tempo di incubazione è di dieci anni e in questo arco temporale occorre scegliere quale approccio adottare sia da un punto di vista tecnologico che economico. Un esempio: in questo momento sono in produzione tecnologie nell’ordine di 32 nanometri. Componenti a 22 nanometri, quindi dieci volte più piccole sono ora in fase di sviluppo e andranno in produzione nel 2011. Parallelamente c’è un gruppo di ricerca che si concentra sui 16 nanometri e lavora guardando al 2013 mentre il mio team ha come orizzonte temporale il 2017 e si misura in uno spazio occupato da dieci-venti atomi.
Coordinare questa sequenza di lavoro e di ricerca è uno dei segreti che ci consente come Intel di tenere questo passo. Si tratta di trovare l’equilibrio tra innovazione e pianificazione. Noi abbiamo stabilito che ogni generazione di chip si può permettere di avere solo un 20% di innovazione. Il motivo è semplice. Se ogni volta fai la rivoluzione in termini di tecnologie non puoi produrre in modo economico. La difficoltà è scegliere quel 20% dove concentrare la ricerca e lasciare immutato il resto. Solo così si possono ottimizzare le risorse.
A questo metodo di organizzazione della ricerca, come dicevo, io ho aggiunto qualche cosa di italiano. Negli anni Ottanta – ricorda Gargini – il vantaggio tecnologico del Giappone era un pericolo per Intel. Loro erano fortissimi nei microprocessori e dieci volte più grandi di noi. L’obiettivo era non perdere il confronto per mantenersi indipendenti dalla tecnologia dell’Estremo Oriente. Alla fine non solo abbiamo retto la concorrenza ma in sei anni li abbiamo superati. E tutto grazie alla leggenda degli Orazi e ai Curiazi. Ora mi spiego. L’industria viaggiava a un passo di tre anni. Vale a dire: una memoria nuova veniva introdotta ogni tre anni. Per rispondere – come si narra la leggenda – occorreva correre più veloci, costringerli a inseguire in termini di innovazione. Si pianificò così un passo di due anni nella ricerca e nello sviluppo. Per accorciare i tempi dell’R&d ho preso spunto da Michelangelo. Correre più veloce significa scegliere un compromesso. Nel nostro caso volle dire rinunciare a una fase di sviluppo. Una generazione di chip viene prima pensata, poi c’è la fase di prototipizzazione e poi la produzione. Noi saltammo il passaggio intermedio. Come Michelangelo che durante la costruzione della cappella Sistina consegnava direttamente gli schizzi agli assistenti che li riproducevano esattamente. Certo, ci siamo presi dei rischi ma così facendo rispetto ai giapponesi abbiamo guadagnato un anno».
Oggi è tutto cambiato. I temi legati al risparmio energetico sembrano aver rubato la scena a quell’abboffata di gigahertz, velocità di calcolo e potenza che ha occupato tutti gli anni Ottanta. «In realtà – corregge il tiro Paolo Gargini – i campi di applicazione dei computer sono gli stessi: server e supercomputer richiedono transistor ottimizzati per la velocità. Telefonini e smartphone, invece, microprocessori a bassa potenza. Dieci anni fa un circuito necessitava di 120 watt per funzionare. Agli Adam di Intel ne bastano uno o due, di watt, e la prossima generazione promette consumi di mezzi watt».
Semmai quello che sta cambiano è l’applicazione del concetto di roadmap anche a settori altri da quello dei semiconduttori. In altre parole, la necessità di progettare una evoluzione tecnologica è sentito come centrale in settori strategici come quello dell’energia. «La rete di distribuzione elettrica è aperta nel senso che non è governata, non ci sono controlli. Le fabbriche che costruiamo negli Stati Uniti sono connesse a due centrali diverse. Se per esempio ci sono problemi sulla costa Ovest allora si prende energia da quelle Est. Non c’è una intelligenza che redistribuisce l’elettricità in base alla domanda. In questo senso la rete intelligente è lontana. Ecco perché il dipartimento dell’Energia Usa ci ha chiesto di aiutarli a costruire una roadmap per controllare la rete come si controlla un circuito integrato. Immaginate un sistema di fiumi senza controllo? Ecco, il nostro compito sarà capire come e dove costruire dighe e canali. E come comandarle». Per iniziare stanno già disegnando la mappa.
pubblicato su Nova del 5 maggio