il mestiere del game designer (la storia di Davide Soliani)


Bozzetti A Milano in via Pace c’era l’Istituto tecnico statale ad ordinamento speciale, meglio noto come Itsos. C’era perché oggi l’hanno spostato. Ma negli anni Ottanta quelli dell’Itsos se li ricordano tutti. Erano gli studenti più colorati e casinisti tanto da rubare alle manifestazioni la scena ai licei della Milano bene. L’istituto era fatiscente, le materie molto interessanti (cinema, computer, new media e arti visuali) e gli insegnanti passavano per essere rivoluzionari e vicini ai ragazzi (tra questi c’era il cantante di blues Fabio Treves). Una scuola diversa dalle altre e proprio per questo molto discussa. Da quel l’istituto è uscito uno dei pochissimi game designer italiani. Forse l’unico che oggi sta lavorando a un videogioco per Kinect, una nuovissima tecnologia Microsoft per Xbox 360 che promette di far scomparire joystick e controller e che intende rivoluzionare il modo di giocare davanti al televisore.
Lui si chiama Davide Soliani, ha 37 anni, lavora negli studios milanesi di Ubisoft, e da 13 anni crea e progetta videogiochi. Un mestiere invidiato: in Giappone (ma non solo) i game designer sono considerati rock star. Personaggi come Shigeru Miyamoto (il papà di Supermario), Hideo Kojima (Metal Gear Solid) ma anche Will Wright, il creatore dei Sims, o Cliffy B (Gears of War) hanno su internet (e anche fuori) un seguito senza precedenti. Incontrarlo non è stato facile. La sua agenda è fittissima: ha una manciata di mesi per finire MotionSports, un gioco di sport prodotto in esclusiva per Kinect: «Noi ci abbiamo messo le mani da quattro mesi ma non è semplice, quelli di Microsoft ci stanno ancora lavorando e a noi tocca ogni volta ricominciare da capo», racconta a luglio Davide Soliero che, per questo progetto ha a disposizione praticamente tutto lo studio di Milano, una squadra di 40 persone più altre due strutture di Ubisoft all’estero impegnate su singoli sport. «Per un game designer è una sfida che capita una volta nella vita – ammette –. Il solco è sempre quello tracciato dalla Wii di Nintendo. Videogiochi più "sociali" adatti a qualsiasi profilo di giocatore. Proprio per questo difficili da far digerire ai "gamers" più incalliti, quelli stravaccati sul divano nella penombra con il joystick stretto nelle mani. Loro sono più difficili da conquistare. Ma il bello di questo nuovo hardware è che puoi sorprendere: immagina durante un gioco di esplorazione di poter accendere la luce di una casa semplice pronunciando la parola luce. Oppure schioccare le dita e vedere che qualche cosa accade dentro lo schermo. Per un bambino di otto anni immagino sia quanto di più vicino alla magia ci possa essere».
Correre sul posto, guidare un’auto semplicemente muovendo le mani o menare calci e pugni a destra e manca interagendo con un mondo virtuale è la promessa, ma anche il limite, di Kinect. Senza bottoni e leve, senza qualche cosa di fisico da toccare è difficile misurarsi con i videogiochi, almeno come finora sono stati concepiti. Ma forse è proprio questo il bello. Un game designer pianifica e decide le regole del gioco, da quanto in alto deve saltare un personaggio alla posizione dei nemici. Quando però la tecnologia è nuova deve per forza ripartire da zero per studiare come tradurre un’emozione in un’esperienza di gioco. «Adesso è tutto più facile – riflette Davide –. Le nuove periferiche di gioco danno a noi grande libertà di immaginazione. Quando ho iniziato io, invece, i limiti erano enormi: la memoria non bastava mai. Per divertire avevamo a disposizione solo qualche pixel. Ma se ci pensiamo è così che è nato Pong, il primo videogame della storia. Una barretta che si muove in alto e in basso e una pallina da colpire. Semplice, no?».
Sembrano passati millenni, ma quando ha iniziato Davide Solieri la Wii non c’era ancora e neppure la grafica in Hd. In Giappone avevano appena inventato il Tamagotchi, si giocavo molto alle avventure come The Curse of Monkey Island e Virtua Fighter 3 era il gioco più sofisticato sul fronte della grafica. «Io all’epoca ero uscito dall’Itsos, con indirizzo cinematografico. Consumavo grandi quantità di libri e videogiochi e ogni tanto scrivevo per qualche rivista specializzata. Quando ha aperto Ubisoft a Milano mi sono presentato come autodidatta. E loro hanno creduto da subito in me». A Milano però ci è restato poco. Voleva una esperienza all’estero. Così decise di andare a Londra per lavorare con Kuju una casa di produzione che in quegli anni sviluppava videogame con Nintendo. «Per due mesi dormivo in ufficio. Ma ero disposto a tutto per inseguire il mio sogno. Io nasco giocatore Nintendo – tiene a precisare Davide –. Volevo a tutti i costi imparare da loro». Dopo aver lavorato su Battalion War per Gamecube lascia l’Inghilterra per il Canada. Va a Montreal tornando in Ubisoft. «Parto dal gradino più basso, il level designer. In realtà è ingiustamente considerato una ruolo secondario. Il level design in realtà è colui che da solo è responsabile del 50% del gioco. È un po’ come il batterista, detta il ritmo tattile del game. A ogni modo, nel giro di sei mesi torno a essere game designer. Anzi, entro a far parte del board creativo. Là, diciamo, mi scontro per la prima volta con la Wii». Per le sue mani passano titoli come Boog and Elliot a caccia di amici e il videogame tratto dal film di James Cameron, Avatar.
A Montreal però non ci resta molto. Decide di tornare a Milano. «Cercavo una dimensione di lavoro più "familiare". Come in molti altri campi anche nei grandi studios lo sviluppo di videogame richiede sempre di più figure iperspecializzate che seguono solo alcune fasi della lavorazione. Io invece sono abituato a seguire il processo passo a passo insieme ai miei collaboratori. È il mio modo di concepire i giochi. In un certo senso – osserva – è qualcosa che ho imparato a scuola. Anzi, in quella scuola, in via Pace».