Considera il ratto. Ha un cervello composto da 21 milioni di neuroni (quello umano ne ha circa 100 miliardi), pesa 2 grammi e funziona con l’energia che serve a illuminare un albero di Natale. Non gioca bene a scacchi come Blue Brain, né riesce a battere il più forte concorrente di quiz come è successo recentemente con Watson. Ma ha intuito, si adatta all’ambiente, riconosce i pericoli e improvvisa. Simulare in un robot questa "intelligenza" significa progettare computer che replichino il funzionamento del cervello animale. Grazie alle neuroscienze sono stati costruiti software capaci di replicare il funzionamento di un cervello all’interno di un elaboratore elettronico. Ma ci si è sempre scontrati con i limiti del silicio sia per quanto concerne il consumo di energia (legge di Moore) che per l’architettura (contrariamente ai chip tradizionali, definiti nel secolo scorso da von Neumann, nel cervello biologico non esiste una separazione fisica fra memoria ed elaborazione dell’informazione).
Per usare una parola, ciò che rende il cervello biologico superiore a qualsiasi calcolatore è l’architettura. Due anni fa il Darpa, l’agenzia delle ricerche avanzate dell’esercito americano, mise sul piatto complessivamente 50 milioni di dollari per lanciare il progetto SyNAPSE. L’obiettivo era di costruire un chip neurale a basso costo e basso consumo energetico che mima il cervello animale. Per l’"hardware" sono stati scelti partner come Hp, Ibm e Hrl. Per il software, gli algoritmi biologici ovvero i modelli del cervello che popoleranno il neuro-chip è stato selezionato il Dipartimento di Sistemi Cognitivi e Neurali dell’Università di Boston. Alla guida del team chiamato a progettare e testare la prima versione del cervello artificiale denominato MoNETA (Modular NEural Traveling Agent) ci sono due scienziati nati in Italia Ennio Mingolla e Massimiliano Versace che due mesi fa hanno raggiunto il primo obiettivo: realizzare un animale virtuale capace di riprodurre fondamentali funzioni percettive ed emotive. L’animale scelto? Un ratto, appunto.
«La novità rispetto ad altri progetti di intelligenza artificiale è che lavoriamo su sistemi all brain completi, autonomi che non hanno bisogno di una programmazione a priori che dica loro cosa è bene e cosa è male». Delle macchine capaci di esplorare l’ambiente circostante, apprendere e adattarsi. Quello che studiano al Center of excellence for learning in education, science and technology (Celest) dove lavorano i due scienziati sono appunto algoritmi biologici, simulazione delle proprietà matematiche delle reti neuronali. «I nostri programmi sono molti astratti – spiega Mingolla –. Sono equazioni matematiche che definiscono neuroni e sinapsi. Attualmente stiamo lavorando sul comportamento del software-ratto utilizzando un ambiente virtuale ispirato alle "vasche di Morris" per studiare come esplorare e risolve problemi». Chiaramente, tengono a precisare gli scienziati, siamo all’inizio di questa ricerca: l’ingegneria neuromorfa lavora su chip, gli Hp Lab sono impegnati sui memristor, circuiti ad altissima densità mentre chi progetta il software lavora sugli algoritmi. Il Darpa si è dato sette anni, e naturalmente non intende partorire un topolino, bensì nuova generazione di robot capaci di risolvere problemi e reagire autonomamente. Non solo l’industria militare è interessata a hardware con architetture che replicano il funzionamento del sistema nervoso. Il team di Mingolla è stato contattato anche dalla Nasa e da industrie del settore privato come iRobot.
Ma in questo momento l’attenzione si concentra nei laboratori. In tutto il mondo sono stati avviati progetti di ricerca ambiziosi e di lungo periodo. Un esempio è Blue Brain di Ibm. Nato nel 2005 si è dato un orizzonte di 15 anni per simulare attraverso un supercomputer il comportamento di un cm2 di corteggia celebrale. A Stanford Kwabena Boahen lavora su chip al silicio, tra gli scopi di questa ricerca denominata Neurogrid c’è anche quello di realizzare una retina artificiale. A gennaio è partito Brainscales, un programma Ue per la realizzazione di un processore neuromorfico. «C’è una massa critica. Nel nostro caso – precisa Versace – gli esperimenti di neuroscienze, le teorie che sono state elaborate hanno trovato nei computer e quindi nella capacità di calcolo uno strumento straordinario di test e di simulazione. Ma la novità che almeno per il nostro tipo di ricerche è in grado di fare la differenza è rappresentata da robot a basso costo per sperimentare algoritmi e chip di nuova generazione. Verosimilmente i primi risultati arriveranno da chi saprà comporre software, hardware e ricerca nel giusto mix. Come avviene in Formula Uno. La macchina che vince non è quasi mai quella che ha il motore più potente».